E l’autrice ne è consapevole?
È umanamente possibile essere inconsapevolmente reazionari?
Ci sono momenti in cui la mia mente va in cortocircuito. E
condivido.
Noto un fondo di godereccio senso di rivalsa nei lettori e
critici che hanno messo in luce questo presunto messaggio reazionario. E li
capisco. Il punto altro, il non detto, l’implicito di questo atteggiamento
sembra essere: negli anni la Sergio Bonelli Editore è cambiata, diventando il
conservatorismo dell’editoria a fumetti. Dalla griglia rigida, all’avventura
per forza, al realismo dei disegni… il potenziale del fumetto imbavagliato,
immobilizzato. Quando a questo atteggiamento editoriale si sposa
l’inconsapevole caduta politica di una delle nuove autrici di punta dell’editore,
il gioco è talmente facile da sembrare una resa incondizionata. La deriva ha
raggiunto il suo apice.
E mi viene il dubbio, serio, che a questo intricato livello
di lettura sia dovuta l’energia, l’irruenza degli interventi contro la storia
in questione.
Ho un punto di vista divergente. Che ha meno a che fare con
la casa editrice e con la politica, e più con l’uomo e la sua condizione
odierna.
Il Boia di Parigi è una storia che si colloca al di là di
precise e precodificate categorie politiche. Ma rappresenta nella sua
compattezza la dimensione esistenziale nella quale viviamo imprigionati
quotidianamente: ripiegamento all’individualismo, senza più alcuna prospettiva
storica, in un eterno presente fatto di distrazioni, di non sentire, di non ascoltare.
In questa sospensione, avviene la perdita di senso di quello che si fa, delle
relazioni, delle proprie emozioni, fino ad arrivare al nichilismo più acceso.
Un percorso che è assai simile a quello psicotico della depressione, dove i
fantasmi sono più consistenti del reale, dove il mondo si sottrae alla
conoscenza che arriva attraverso l’esperienza. Perché l’esperienza non è altro
che la conferma della parabola depressiva in atto. Isolamento. Anomia.
Di questa condizione, Il Boia di Parigi rappresenta la sua
variante da intrattenimento “popolare”, onnivoro. E non è un caso che tale
perfetta esemplificazione avvenga all’esordio di una serie (Le Storie) nella
quale non esistono specifici vincoli tematici, da un punto di vista editoriale.
Laddove, cioè, si allenta la presa iconica/iconografica imposta dai personaggi
seriali, emerge un carattere specifico, sensibile, personale, rappresentativo.
La categoria nominata “reazionario” perde a mio avviso di
ogni significato storico, di ogni dimensione. E l’incosapevolezza ne
rappresenta la precondizione necessaria, vincolante.
Alcuni errori di sceneggiatura a parte, la storia in
questione è ben fatta, ben disegnata, ben confezionata, secondo i criteri
estetici previsti dalla casa editrice. È quindi una storia epocale, necessaria,
che tanto, troppo (?) ci dice della nostra condizione sociale e comunitaria.
Quel che molti vedono come un difetto, per me è un dono
prezioso. Deprimente, certo, ma rivelatore.
Quando il reale, l’esperienza vitale e dinamica tornerà a
trovare il giusto spazio nella nostra quotidianità, al di là del peso
schiacciante della crisi economico/finanziaria (che altro non è che una forma
imposta di depressione), sarà possibile tornare a leggere storie “popolari”
diverse.
Da qui, credo sia chiaro che la faccenda è intrinsecamente
politica. Ma siamo di fronte a una nuova sfida: trovare nuove categorie di
analisi e di pensiero per questo presente politico involuto.
E l’intrattenimento? L’uso del tempo, lo spendere il tempo
in modo “indolore”, nella sospensione del sentire, del pensare, del reale, non
è parte in causa di questo stato di cose?