martedì 27 settembre 2016

^Sigh^Life! - Farsi venire una certa fam(e)a


                                    studio per la copertina del numero 1 di Caravan (c) Mammucari


Sono venticinque anni (!) che leggo le storie di Michele Medda. Alcune sue storie hanno fondato parte del mio immaginario. Ricordo alcuni classici: per Nathan Never Gli occhi di uno sconosciuto (con i disegni di Casini), La Rivolta (albo gigante sempre in coppia con Casini); per Dylan Dog almeno La legge della giungla/Homo homini lupus (con Freghieri) ma ce ne sarebbero altri; per Caravan La storia di Carrie (con Maresta) che mi emozionò moltissimo alla sua uscita. Capirai che di 25 anni di carriera ho citato solo una minima parte delle sue storie importanti. In ogni caso, posso dire di essere spesso stato nel fiume delle sue storie. In occasione del primo numero di Caravan (era il giugno del 2009), su Harrydice... scrivevo così dell'autore:

"Non so cosa sia Caravan, narrativamente parlando. Non ho avuto voglia di leggere anteprime, interviste, comunicati stampa. Ho comprato il primo numero al buio. Perché di Medda mi fido. Perché a Medda attribuisco senza dubbio le qualità dell’intelligenza, della professionalità non sterile ma “germinale”, dell’autonomia di pensiero e della passione per il medium fumetto."
Sono passati sette anni da allora. Medda continua a raccontare le sue storie. Ha recentemente completato una serie che ho seguito solo all'inizio, Lukas (cocreata col disegnatore Michele Benevento). Le storie che ho letto mi hanno lasciato indifferente. Ho ritrovato una voce poco in sintonia con le mie corde oggi, insieme a meccanismi narrativi prevedibili, che non mi hanno convinto a proseguire. Si può tradire una fedeltà di questo tipo, perché sai che da qualche altra parte e in qualunque momento il filo si può ricollegare al volo. 

Ma le cose non sempre vanno in modo lineare.
Sono anni complessi per il fumetto seriale in Italia. Bonelli in particolare, pur rimanendo un'azienda più che solida, da capitali importantissimi, sta cercando di modificare la propria identità, e sopratutto di ricollocarsi, rinnovarsi. Lo sta facendo in molti modi, dall'apertura alle pubblicazioni dirette in libreria, allo sviluppo di un uso del colore più maturo e moderno, al rilancio dei tanti brand che la casa editrice ha creato nel corso degli anni (in dirittura d'arrivo le nuove avventure a colori di Martin Mystere per esempio), alla realizzazione di nuove serie e miniserie, di cui la sopraccitata Lukas è parte. Ma le vendite dei fumetti in edicola calano regolarmente. Sono anni difficili. Non solo per il fumetto, aggiungerei.

Vorrei parlare di Michele Medda come aspetto esemplificativo, di una fase, che immagino collegata a un passaggio epocale. E cercare di andare oltre il caso personale. Ci sono momenti in cui le cose si fanno difficili e si rischia di chiudersi, di trincerarsi. Accade in ogni settore.

Recentemente Medda ha pubblicato sul suo profilo Tweeter, questo messaggio:


Un messaggio che sembra una boutade. Ho sorriso, ma ho anche sentito un allarme, a fronte di una contrapposizione spiacevole tra lettori e autori. Ma continuavo a sorridere. 
Poi ho letto questo:


I lettori stanno mettendo gli autori a dieta... Inizio a perdere il sorriso. 
A quel punto, scrivo un mio commento, perché mi sarebbe piaciuto avere un chiarimento su questa presunta contrapposizione, su questa idea davvero contraddittoria. Ma a quel punto segue una risposta che mette la cosa sul personale e che non capisco. Aggiungo altri commenti senza che la cosa da parte di Medda prosegua e venga chiarita. Ecco qui di seguito: 




Ricorda, usiamo questo episodio come esemplificativo. 
Intanto, per chiarire, come ho postato a Medda non sono i lettori che affamano gli autori, ma se mai i non-lettori. E, come ho ben rappresentato a inizio di questo articolo, io sono un lettore, anche un lettore assiduo, si potrebbe dire fedele, un bene per l'editoria. Un bene per gli autori. 
Un c-a-p-i-t-a-l-e. 

E allora, senza tirarla troppo per le lunghe, io vedo in questo esempio, un'insofferenza che mostra anche una sorta di crisi di identità. Dove non si capisce più bene quali sono le parti in gioco e le, eventuali, controcause. Vedo alcuni autori sempre più sulla difensiva, mentre si ripiegano in un insano vittimismo, dove assumono la parte degli incompresi. Tanto da non distinguere più gli "amici" (i lettori) dai "nemici" (i non-lettori). 
Non è un caso che mi si "usi", in un piccolo tweet, come epigono dei nemici, forse perché, lesa maestà, mi sono permesso di esprimermi in modo critico su alcuni recenti lavori dell'autore. 
Ma è l'amore per il fumetto che guida questa sciocca e cocciuta volontà di parlare di fumetti. Ne scrivevo proprio in quell'articolo sul primo numero di Caravan cui ho accennato sopra. Mi ricito, perdonami: 

"Forse non ci credete, ma io amo il fumetto popolare. Ne amo la storia, l’evoluzione e le potenzialità. È per questa ragione che ne parlo così spesso male, perché ci tengo, lo coccolo, lo seguo e ne soffro. Ogni forma di comunicazione che ha vocazione “popolare” dovrebbe sentire delle responsabilità, che stanno innanzitutto nel non sentirsi autorizzati a banalizzare, a semplificare eccessivamente per quello strano assioma – che è un pregiudizio – che più una cosa è di facile “utilizzo” più si riesce a venderla.Se la semplicità è una vocazione del prodotto popolare, dietro a essa si deve respirare il pensiero, l’intelligenza, la partecipazione e la naturalezza. Tutte caratteristiche che mancano alla maggior parte dei prodotti popolari, fumettistici e non. Perché per costituzione e per necessità, il prodotto popolare è contaminato, improprio, derivativo, meticcio … tutti aspetti che ne fanno un “oggetto non identificato”, che richiede una straordinaria capacità di sintesi e di comprendere il clima socio-culturale in cui si vive.E a chi non piace sentire ancora oggi parlare di etichette quali “popolare” dico solo che il linguaggio dell’uomo funziona perché si definiscono, implicitamente o non, delle convenzioni. E mi sento ancora oggi in diritto di far mia tale convenzione: per cui, spero sia chiaro a tutti cosa intendo quando parlo di fumetto popolare. Non è una definizione di merito, né un giudizio implicito. Ha più a che fare con il pubblico di riferimento e i meccanismi produttivi che generano tali prodotti."
Il fumetto seriale non è, non può essere sterile ripetizione di sé. E d'altra parte, come tutte le cose della vita, è soggetto a cambiamento, vita e morte. L'autore seriale lotta giornalmente in un'arena difficile, che va pienamente rispettata, dove si deve trovare un equilibrio difficile tra routine e creatività. Per di più, in questo momento proprio le sfide della casa editrice Bonelli mostrano che non è più sufficiente fare bene la parte produttiva di un fumetto, ma è sempre più centrale promuovere in modo intelligente i propri prodotti. Era stato Bruno Enna, in uno scambio in formale col sottoscritto, che a proposito della sua serie Saguaro (chiusa per poche vendite) mi disse proprio questo. L'autore deve sapersi promuovere.
E se non lo sa fare?
Ho incontrato troppi autori bravi o bravissimi, che non hanno nel sangue la capacità di promuovere presso il pubblico potenziale i propri lavori. D'altra parte, soprattutto in una realtà produttiva come quella della Bonelli, sono fermamente convinto che sia ruolo chiave dell'azienda realizzare anche questo pezzo del lavoro. Le cose si stanno muovendo molto lentamente, e in modo poco organico. I vari "mondi narrativi" dell'editore milanese sembrano comportarsi come isole distanti, ognuna con velocità e modalità diverse. Anche nel rapporto con la critica specializzata c'è difformità, di velocità e metodi.

Tornando a Medda, vedere nel sottoscritto un nemico esemplare appare completamente fuori fuoco. Credo che sia parte del mestiere non vedere i potenziali lettori come controparti, ma come alleati da consolidare, trattenere, sorprendere. 
Un esempio riguarda Medda da molto vicino. Mai come in questi ultimi due anni il brand di Nathan Never è apparso tanto in caduta libera. Perdita di personalità, di solidità, di visibilità, e altre cose con l'accento sulla A. Non so dire cosa sia effettivamente successo all'interno della casa editrice, ma da esterno, si è notato un calo di investimento progettuale su Nathan Never, insieme a un ricambio di autori storici molto importanti.
Oggi, a settembre 2016, si vedono i segni di una controtendenza. Complici i festeggiamenti per i 25 anni di vita editoriale, stiamo leggendo alcune delle storie migliori che siano state realizzate sulla serie, guarda caso a firma proprio dei suoi creatori (che ricordo sono Michele Medda, Antonio Serra e Bepi Vigna).


Sulla serie regolare (nn. 301-303) Antonio Serra, insieme ai disegni di un Sergio Giardo pienamente ispirato, ci offre il suo canto del cigno come sceneggiatore. A suo dire non tornerà a scrivere per la serie e svolgerà solo il ruolo di editor. Questo saluto, oltre a mettere ordine a tanti elementi di continuity che vengono risolti e chiariti, ha una forza narrativa che sembra emergere proprio dallo stato di chiusura di una fase di vita, personale e professionale. Impossibile indovinare l'autocoscienza di un'altra persona, ma credo che questa particolare condizione abbia reso ogni pagina di questi tre numeri di Nathan Never tanto eclatanti quanto definitivi. Si vede uno sforzo "memorabile", nella cura dei dettagli e nella volontà di colpire ed emozionare, che si sposa perfettamente con le tematiche cosmiche di cui tratta. 
Completamente diversi gli umori e la sensibilità che mette in gioco Bepi Vigna con la seconda sequenza di storie importanti che stanno uscendo attualmente in edicola. Si tratta di Nathan Never Anno Zero, con i disegni del sempre evocativo Roberto De Angelis. Non si respira, qui, il senso di una fine, ma proprio il senso della costruzione di nuove fondamenta narrative. Vigna è talmente bravo che sa accontentare i lettori di vecchia data come me, e incuriosire i potenziali nuovi lettori. La miniserie di sei numeri è solida, sta in piedi da sola, svolgendo però perfettamente la funzione che ogni "Anno Zero" ha per tradizione: raccontare da altri punti di vista il passato del personaggio, ricapitolando gli eventi, accentuando quelli che si ritengono più in sintonia con il presente della serie. Un lavoro ricco di amore e dedizione.



Insomma, e chiudo, è da questi due esempi che vorrei cogliere un segnale: professionalità e passione si incontrano per dare forma a storie che si vogliono memorabili. Il seriale italiano ha bisogno a mio avviso di questa energia. Non per fingere eventi imperdibili che non esistono (come spesso accade per esempio nel fumetto statunitense) ma per rafforzare l'alleanza vitale tra autori e lettori.
I lettori danno da mangiare agli autori, in qualità di destinatari finali di una filiera complessa. La loro alleanza è vitale per il fumetto seriale, per il fumetto tutto.


^Sigh^Life! - L'intervista perduta di Sergio Gerasi



Era Lucca Comics and Games 2014.
Nei miei giri tra gli stand avevo incontrato Sergio Gerasi. Presentava per Bao Publishing il suo nuovo lavoro "autoriale" In inverno le mani sapevano di mandarino. Gli chiesi la disponibilità per un'intervista in anteprima. Lessi il libro la sera di giovedì. Venerdì facemmo l'intervista.
Sergio è una persona con la quale è bello chiacchierare. Ha un suo punto di vista sulle cose, è aperto, si mette in gioco, ha una sensibilità rara, ed è molto simpatico.
In inverno le mani sapevano di mandarino è un libro imperfetto ma ricco, frutto di un lavoro di ricerca, che tratta temi a me molto cari, riguardanti la memoria, l'invecchiamento, la perdita di sé, la fiducia... Lavoro da molti anni con persone affette da deterioramento cognitivo. Quel mondo, quel pezzo di umano che sfugge alla vista di molti ma che terrorizza nel silenzio, ha una vitalità e potenza, anche ideativa, che pochi sospettano. Il libro di Sergio mi ha riportato in modo curioso e intelligente quelle sensazioni. Ma soprattutto in quelle pagine Sergio, muovendosi in una sua Milano onirica e, per questo, immaginaria, inconscia, offre molto di sé al lettore, si mostra in un processo di rielaborazione personale. 
Certo, il libro svela anche, ancora, la necessità dell'autore di proteggersi dietro a meccanismi narrativi non sempre chiari. Se dovessi dare un consiglio, e ricordo di averne parlato con lui durante l'intervista, era di trovare una voce più diretta. Ma nessuno può dire meglio dell'autore per quale storia è pronto, a cosa è possibile accedere perché si trasformi in narrazione.
Per inciso, il mio rapporto diretto con Sergio risaliva a qualche anno addietro, durante la prima edizione della 24 Hours Italy Comics, della quale lui fu uno dei protagonisti. In quell'esperienza Sergio si cimentò per la prima volta con il suo "personaggio", che torna in ogni storia "autoriale" che ha fatto finora. Anche di questo parlammo nell'intervista. Fu proprio quella prima occasione che offrì a Sergio l'occasione di cimentarsi con un proprio personaggio, e soprattutto di accendere la scintilla della sua voce "autoriale", che andasse oltre la sua professione di disegnatore di fumetti seriali.
Non so, a distanza di due anni, che riscontro di vendite abbia avuto In inverno le mani sapevano di mandarino. Non ho avuto modo di incontrare nuovamente Sergio in questi due anni. Lo vedo impegnato su Dylan Dog. E spero avremo modo di chiacchierare presto.
Nel frattempo, tuttavia, quell'intervista non ha mai visto la luce, è ancora chiusa in un cassetto, per colpa dei miei molti impegni personali e professionali, che spesso mi tengono lontano dal mondo del fumetto. E il tempo è ormai passato. Quindi questo mio articolo, oltre che un modo per ricordare il suo lavoro, che merita di essere letto, è anche un modo per chiedere scusa per un impegno mancato.
Chissà se Sergio si è dimenticato di questa mia mancanza. La perdita di memoria può essere una tragedia, ma anche una sana benedizione, a volte.

info: In inverno le mani sapevano di mandarino