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mercoledì 19 giugno 2013
^Sigh^Life! - Dragonero
Quando ho avuto la conferma che Dragonero sarebbe diventata una serie a fumetti per Bonelli, non ero certo felice. Di tutti i cosiddetti romanzi a fumetti usciti per l'editore, Dragonero è stato l'unico che non ho mai terminato di leggere. Il sonno mi prese più volte, al punto da abbandonarlo su una mensola fino alla sua tumulazione nello scatolone numero chi lo sa. I motivi? La riproposta dei cliché della narrazione fantasy in una veste piatta, didascalica e priva di una mezza idea originale che potesse giustificare questa nuova storia. Una nomenclatura, più che una storia. Un bigino, più che un viaggio.
Ma la narrazione fantasy classica nel seriale Bonelli è una mancanza importante, se pensiamo che l'editore ha da tempo maturato l'ambizione di coprire il più possibile i diversi territori della narrazione avventurosa. Purtroppo spesso dimentica che non l'horror in sé che ha reso celebre Dylan Dog, ma lo sguardo nevrotico e personale del suo ideatore Sclavi. L'esempio che cito è il più clamoroso, ma può valere per ognuno dei personaggi Bonelli di successo, collocato nel proprio tempo, dal primo Tex alla più recente Julia passando per Mister No.
Il primo numero di Dragonero è uscito da poco nelle edicole e ho letto solo le prime venti pagine, finora. E rifletto nuovamente sulla funzione critica che mi sono ritagliato negli ultimi anni. E sul senso di continuare a seguire tappe e riti di questo stanco ed esangue panorama editoriale seriale che trovo sempre più autoreferenziale e autocelebrativo e ripiegato e vittimistico.
Credo che la crisi economica e del mercato, le difficoltà della distribuzione con la connessa chiusura di molte edicole, e la faccia di un mondo dell'intrattenimento così sfigurata obblighi gli autori ad alzare la posta in gioco.
La cosa mi colpisce doppiamente se penso che ritengo i due sceneggiatori alla guida di Dragonero degli ottimi professionisti che hanno dimostrato, nella loro ormai lunga carriera, per modalità completamente differenti, di avere realmente qualcosa da raccontare. Il Vietti di un certo periodo di Nathan Never è stato una delle poche ragioni per cui seguivo la serie. Lilith di Luca Enoch, malgrado le numerose restrizioni cui si è sottoposto per essere all'interno delle regole della casa editrice, rimane una lettura coinvolgente.
Insomma, non mi sfugge il target del progetto, ma mi sfugge il punto, come credo sfugga agli autori. Se il target diventasse l'autore e viceversa?
Dylan Dog, nei suoi anni d'oro, ha generato il suo target, reinventandolo da zero pescando nella sensibilità reale viva e pulsante del suo tempo. E lo stesso fu per Mister No.
Possibile che l'indifferenza dei lettori, impermeabili all'idea che un banale fumetto li possa coinvolgere (se non sconvolgere), renda impossibile, oggi, creare nuovi target?
Sopravvivenza e conservazione sono le uniche parole magiche di oggi?
Ormai, si parli di una casa editrice a fumetti italiana o si parli di una major del cinema americano, il discorso è lo stesso: obiettivo unico fare alti numeri (di lettori/spettatori) e dunque alti incassi e dunque alti ricavi. Da un lato mirare a un'ampia base di pubblico è positivo, dall'altro, purtroppo, popolare (diffuso, di largo consumo, alla portata di tutti) è sempre più sinonimo di banale, piatto e senza contenuti.
RispondiEliminaL'indifferenza dei lettori è specchio dell'indifferenza di chi, per loro, crea (un fumetto, un film, una canzone)
Però, calma: a me sembra che solo RECENTEMENTE il binomio alti numeri-contenuto piatto sia diventato praticamente consequenziale, sia nel cinema che nel fumetto.
RispondiEliminaPenso agli scialbissimi blockbuster attuali, alla tiretera infinita di sequel/remake di vecchie glorie, al livello medio della narrativa a fumetti mainstream americana e si, anche italiana.
Poi riguardo un film degli anni '80 o un fumetto dei medesimi o del decennio successivo, e ci trovo molti più contenuti di adesso e per di più raccontati meglio.
Più che altro mi chiedo: la banalità che impera adesso è colpa di chi produce narrativa varia, o del grande pubblico che ne fruisce?
Non vi sembra che si sia abbassato drasticamente il livello culturale della cosiddetta società occidentale?
condivido.
RispondiEliminae ci vedo due ordini di motivi, che sono intrecciati, e che sono nella base culturale di riferimento. di cosa si "alimentano" autori e lettori?
in merito al caso specifico, però, la questione è diversa: sia vietti che enoch hanno dimostrato da tempo di poter fare cose diverse e anche più "rischiose", più innovative, ecc. ecc.
quindi, qui si tratta di una chiara scelta. una scelta che non condivido e che riesco a motivare in due modi: 1. un chiaro target di riferimento (che mi chiedo se davvero esiste per l'ambito fumetto); 2. l'omaggio degli autori al genere.
punto 1. temo che la banalità dell'approccio, se può interessare gli amanti del genere, può annoiare gli amanti del fumetto in senso lato. o viceversa?! (amo i paradossi)
punto 2. sugli omaggi non puoi costruire una nuova serie. lo puoi fare per una singola storia. ma così?!
ciao
g-
A me Dragonero non è sembrato malaccio, il suo punto di forza è l'immediata leggibilità grafico-testuale. Scrittura semplice. Disegni puliti. Ecco, magari a un lettore consumato come me che apprezza opere più "stratificate" e complesse (es. in questi giorni sto gustandomi Essex County di Lemire) non viene voglia di seguire una serie così, però immagino che i grandi numeri si facciano più facilmente con l'immediatezza del tratto e la linearità del racconto tipica di un fumetto "popolare", no? Forse nel giudicare queste serie dovremo farlo contestualizzando meglio il tipo di produzione e di lettore di riferimento.
RispondiEliminaA me è successa la stessa cosa. Ho riposto nello scaffale il primo numero dopo una quarantina di pagine, con la scusa di raccogliere i prossimi tre e leggere tutto in una volta.
RispondiEliminaIn realtà mi sono annoiato parecchio e basta. Anche a leggere il vecchio volume. Di meno, ma lo stesso.
Mi sono fatto l'idea, però, che molto vada attribuito al genere che, più di altri, rappresenta una gabbia assai pesante. E' un genere che negli anni è rimasto confinato solo ad alcuni media (il cinema lo ha scoperto DAVVERO solo negli ultimi 10 anni) e le proprie radici affondano ancora troppo nella sola opera Tolkeniana. Per dire, quando ci sarà un fantasy dove non sarà obbligatoria la presenza di un orco, di una casta di maghi o di gente con le orecchie a punta che scoccano frecce, la cosa, probabilmente, si farà leggermente più interessante.
Lo sword & sorcery, tanto per dirne una, nonostante con il fantasy abbia diversi punti in comune, è un campo molto più aperto dove certe cose potresti ancora non aspettartele.
Ma parlo da NON appassionato di fantasy, quindi potrei sbagliarmi. O forse proprio per questo, no.
ehi, che bello, due giudizi diversi e complementari, e tutti e due interessantissimi.
RispondiElimina@giovanni: vedi, in realtà io faccio sempre (sempre!) lo sforzo di comprendere "il tipo di produzione e di lettore di riferimento".
ma è proprio qui che per quanto mi riguarda il gioco di dragonero è debole. in effetti è proprio il punto di vista da cui parto per la riflessione.
quello che sostengo è che, oggi come oggi, oggi più di allora, o allora come oggi (!) per riuscire a fare una serie solida e vincente (?!) sono convinto che non basti riprendere in modo banale stereotipi così forti di un genere senza che alla base ci sia un'idea (o meglio, una sensibilità) solida e inedita. meglio ancora, che non sia in sintonia forte con i lettori. è questo, da sempre, che dà sostanza e successo al concetto di "popolare", in particolare in bonelli.
per inciso, aggiungo anche che non è un problema di stratificazione o complessità, per quel che mi riguarda. e non mi azzarderei mai in un paragone tra dragonero ed essex county, tanto per intenderci.
@luigi: non so se il "problema" sia tolkien. non so se il problema sia "il fantasy". ma facciamo un esempio eclatante fuori scala: hai presente il bone di jeff smith? hai presento quanti e quali siano i riferimenti al fantasy classico che si trovano lì dentro? ed hai presente che razza di capolavoro e di invenzioni ci sono in bone?
ecco, è un esempio calmoroso, lo so, ma che rende idea delle tante possibilità che ci sono. quindi, no, credo che il limite in questo caso non sia il genere, ma il punto di vista degli autori.
ciao!
g.
Ti sei spiegato benissimo. Una sensibilità solida e inedita rispetto al genere in effetti ha caratterizzato da subito Ken Parker, Mister NO e Dylan Dog, ma altri personaggi popolari di successo dall'impostazione più tradizionale come Martin Mystere o Dampyr hanno lo stesso fatto breccia nel grosso dei lettori, o no? E allora io sarei dell'idea che un fumetto popolare debba innanzitutto funzionare come segno e linguaggio "popolare". Se poi porta dentro qualcosa di inedito meglio ancora, ma questa è una fase due, secondo me. Insomma, la serie ha sempre bisogno di un rodaggio... immagino che Vietti e Enoch metteranno del proprio nel prosieguo. O almeno voglio sperare.
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